È proprio Cicerone l'autore che più di tutti offre delle riflessioni attinenti alla concretezza di questo rapporto interpersonale, al punto da dedicare ad esso un'intera opera letteraria: il Laelius de amicitia.
Anche se Cicerone attraverso la figura di Lelio precisa di non voler trattare la questione in modo strettamente filosofico, appare notevole il richiamo e la rielaborazione della tradizione filosofica, a partire dalla analogia con i libri VIII-IX dell'Etica Nicomachea di Aristotele.
Emerge un punto centrale nell'idea ciceroniana di amicizia, concezione che si ricollega a quella aristotelica: l'amicizia non nasce dall'utilità, dal bisogno o dall'interesse, ma dalla sua stessa natura, e poiché la sua natura non può mutare, ecco che le vere amicizie sono eterne; il termine amicitia infatti ha la stessa radice di amor, forte indizio della natura affettiva e non opportunistica dell'amicizia.
L'amicizia accidentale definita da Aristotele non è pertanto annoverata da Cicerone come forma di amicizia in quanto manca di alcuni requisiti: la stima e l'ammirazione per l'altro, la gratuità e l'affetto reciproco.
Inoltre Cicerone afferma che solo le persone oneste, i boni viri, riconusciute tali secondo la morale della tradizione romana, possono stringere tra di loro rapporti di amicizia, dalla colloborazione tra disonesti infatti può nascere solo complicità.
Alla base dell'amicizia deve esserci quindi la lealtà e in particolare coloro che si dicono amici devono rispettare due norme: evitare ogni finzione e simulazione e respingere le accuse rivolte all'amico nutrendo invece fiducia in lui, trattenendosi da eventuali sospetti nei suoi confronti.
Il modello ciceroniano improntato alla concretezza dunque si pone quasi polemicamente contro quello stoico, che delinea uomini ideali, i saggi, reputati da Cicerone come modelli mai esistiti nella storia.
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